Ti presento il Body Scan
Prova a praticare questa meditazione con l'ascolto della traccia audio
Oggi desidero descriverti una pratica Mindfulness che amo particolarmente: il Body Scan.
Oltre ad essere una delle meditazioni più presenti nel mio quotidiano, la conduco spesso durante gli incontri Mindfulness, e mi capita anche di suggerirla nei percorsi di psicoterapia come strumento di centratura e di ascolto del corpo.
Questa pratica si compie solitamente da sdraiati, a pancia in su, con il corpo comodo e fermo.
Anche se la posizione assomiglia molto a quella del sonno, lo scopo non è arrivare ad addormentarsi. Al contrario, l'idea è risvegliare la mente focalizzandola sulle sensazioni che abitano il proprio corpo: si porta l'attenzione all'ascolto delle sensazioni corporee dai piedi fino alla testa, una zona dopo l'altra.
Alcune parti vengono percepite in modo molto vivido, anche se sono completamente immobili. In altre si scoprono piccoli o grandi dolori. Altre ancora sembra invece di non sentirle affatto (istintivamente può venire da muoverle per riuscire a sentirle).
Ma l'invito in tutti questi casi è lo stesso: provare ad ascoltare con curiosità quello che c'è, sia essa una sensazione piacevole, spiacevole o neutra, senza modificare nulla.
Prima di continuare la lettura, se ti va, prova questa pratica ascoltando l'audio che ho registrato e che trovi qui sotto. Ti serve soltanto un luogo tranquillo dove sdraiare il tuo corpo per venti minuti.
Com'è andata?
Forse non è stato semplice mantenere l'attenzione sul corpo?
E' subentrato il sonno? Oppure uno stato di agitazione, noia, irrequietezza?
Se ti sono capitate queste o altre situazioni è assolutamente normale. A meno che tu sia già abituato a questo tipo di pratiche, è molto difficile all'inizio rimanere concentrati, con la mente davvero sveglia, sulla moltitudine di sensazioni sempre diverse che ci trasmette il corpo fermo.
Ma pian piano la mente si abitua a riconoscere i momenti in cui vaga altrove, e impara a riportare con gentilezza l'attenzione alle parti del corpo.
Come ogni cosa, è questione di un po' di pratica.
Con il tempo si apprende a lasciar andare il desiderio di muovere il corpo, il bisogno di percepire per forza sensazioni vivide in ogni sua parte, o di far scomparire dolori o tensioni. Con l'aiuto del respiro, si impara a prendere semplicemente atto di quello che c'è o di quello che non c'è nel nostro corpo.
Il Body Scan diviene uno strumento prezioso ad esempio quando a fine giornata si percepisce la mente accelerata e iperattiva dai tanti stimoli con cui è entrata in contatto, e abbiamo bisogno di “tuffarci” nel nostro corpo per ritrovare un luogo di sicurezza e pace.
In queste situazioni è utile decidere di fermarsi, per ricongiungersi con il proprio sentire corporeo e fisico, prima di andare a letto. E' un atto di amore che doniamo all'organismo, alle nostre cellule.
Un senso di pace, di interezza e di tranquillità potrà emergere alla fine di questa pratica.
Ma scoprirai che ogni volta è sempre diverso, ogni volta ti faranno visita nuovi pensieri, emozioni e sensazioni. E la cosa più bella è che sarai sempre lì pronto ad accoglierli con amore e gentilezza.
Più minuti dedichiamo a questo tipo di ascolto, più diventiamo abili a fare costantemente attenzione ai segnali del corpo durante la vita quotidiana, anche e soprattutto quando ci sembra che il corpo ci stia portando in giro solo come un taxista.
Goditi il miracolo di essere vivo e intero, e di poterlo sentire. Onora il tuo corpo, nella sua totalità, esattamente così com'è.
Carolina Traverso
Ad ogni praticante il suo asana: lo Yoga come un "abito su misura"
L'unicità dell'esperienza propriocettiva di ogni praticante
Uno degli aspetti particolari dello Yoga è che si tratta di una disciplina adattabile a qualsiasi persona: non richiede caratteristiche fisiche precise per poterlo sperimentare. Non bisogna essere magri, snelli, agili o atletici. Non è necessario essere giovani.
Inoltre, a differenza di molti sport, non ci sono prestazioni ottimali a cui dover tendere, non ci sono classifiche né graduatorie.
A volte chi si approccia per la prima volta a questa disciplina rimane infatti sorpreso di non trovare alcuna spinta alla "performance" e nessun confronto tra chi è più o meno bravo.
L'istinto alla competizione (verso gli altri, ma soprattutto verso sé stessi) può emergere in modo particolare quando entriamo ed usciamo nelle posizioni fisiche (asana) dello Yoga: è qui che incontriamo i nostri "limiti" corporei, le tensioni accumulate nei muscoli, le eventuali rigidità dovute all'età o magari alle posture assunte nella giornata.
Ed è proprio in quelle circostanze che è utile sapere che non esiste un'unica posizione a cui dover per forza arrivare, ma possono esistere tante posizioni quanti sono i praticanti. Cosa vuol dire?
Significa che un particolare asana potrà essere assunto in tanti modi diversi quante sono le persone che provano ad assumerlo. E' un po' come un abito su misura che proviamo ad indossare con il nostro corpo: il suo aspetto esteriore potrà essere simile al vestito degli altri, ma ognuno lo cucirà seguendo le proprie misure, per stare alla fine tutti comodi e a nostro agio.
E la cosa bella è che solo noi possiamo conoscere le nostre "misure", poiché solo noi possiamo sapere davvero come quella posizione Yoga ci fa sentire nel profondo.
In questa ricerca tuttavia non procediamo da soli, ci sono i suggerimenti dell'insegnante ad accompagnarci. Ogni asana possiede infatti tutta una serie di varianti (dalle più semplici alle più complesse) che permettono di entrare in quella specifica posizione rispettando le diverse fatiche che emergono. Esistono inoltre una moltitudine di attrezzi (cinghie, coperte, mattonelle, ecc.) che possono venire in nostro aiuto per aumentare la comodità dell'asana.
Con il supporto dell'insegnante potremo allora trovare il modo tutto nostro di entrare nell'asana, magari molto distante dai compagni affianco a noi. E così avremo contattato davvero il nostro "sentire" autentico che quella posizione ci sta trasmettendo. Per poterlo fare può essere utile chiudere gli occhi: in questo modo la mente è aiutata a collegarsi con i segnali propriocettivi inviati dalle periferie del corpo, per farsi così guidare da essi.
A volte nelle sale Yoga è presente lo specchio (magari la palestra in cui viene condotto il corso lo predispone per altre attività), ma in realtà guardarsi allo specchio può rendere più difficile ascoltare le sensazioni interne. Rispetto alla metafora dell'abito su misura, si potrebbe dire che lo specchio rischia di farci concentrare più sull'aspetto esteriore del nostro abito piuttosto che sulle sue misure: ci aiuta a focalizzarci sull'immagine esterna di noi e degli altri mentre pratichiamo, ma ci distoglie dalla nostra sensibilità propriocettiva.
Quindi l'invito prima di cominciare ogni pratica è quello di tenere sempre presente che non c'è nessun obiettivo da raggiungere, nessun modello da imitare...ci sono a disposizione "abiti da indossare" per tutti, uno diverso dall'altro, proviamo ad entrarci scegliendo quello più confortevole per noi, quello che ci permette davvero di sentirci a casa.
"Il vostro vissuto è unico, non ha nulla a che fare con quello della persona che pratica accanto a voi. Non c'è nulla da copiare o imitare: solo la vostra personale esperienza si inscriverà in voi"
Gérard Blitz
Attaccamento genitore-figlio: una "base sicura" che permette di crescere
Come essere un "porto sicuro" per il proprio figlio
Ogni essere umano quando nasce possiede una tendenza innata presente fin da subito: ricercare la vicinanza protettiva di una figura di riferimento, ogni volta che percepisce uno stato di vulnerabilità (pericolo, dolore, fatica).
Questa spinta motivazionale innata viene chiamata dagli studiosi attaccamento. Ma noi umani non siamo gli unici ad averla. Avete presente la storia del piccolo anatroccolo che uscito dall'uovo inizia a seguire il primo oggetto in movimento che vede? Anche se si tratta di un guanto giallo o un di un altro animale non della sua specie? Ecco, l'anatroccolo nel far questo è spinto dal suo sistema di attaccamento, che lo porta a cercare subito una figura protettiva per salvaguardare la sua sopravvivenza (Lorenz; 1957).
John Bowlby partì da questa e da altre osservazioni sugli animali per definire la teoria dell'attaccamento umano (1969; 1973; 1980), oggi considerata uno dei principali riferimenti della psicologia.
Quando il bambino percepisce una situazione "di pericolo" si attiva in lui il sistema di attaccamento (e in parallelo si disattiva il sistema di esplorazione, che invece motiva ad esplorare il mondo).
Il bambino mette allora in atto una serie di comportamenti di attaccamento per ricercare la figura di riferimento, così da garantirsi la sopravvivenza che da solo ancora non può salvaguardare. Piange, vocalizza, muove le gambe e le braccia. Se ha già sviluppato la motilità si dirige a carponi, muove i primi passi, ricerca il contatto corporeo, oppure guarda da lontano il papà o la mamma in cerca di rassicurazione nel loro viso.
Il genitore a quel punto tenderà ad avvicinarsi al figlio per ridurre il suo stato di paura, generando il lui un senso di sicurezza. Così rassicurato potrà tornare ad esplorare il mondo, certo di avere un porto sicuro dove tornare in caso di bisogno.
L'insieme di queste esperienze condurranno il bambino ad "interiorizzare" nelle sue memorie emotive la figura del genitore come base sicura affidabile, a cui rivolgersi in caso di pericolo.
Nel corso delle prime esperienze di vita iniziamo infatti a costruirci delle rappresentazioni mentali di noi stessi e degli altri, che vengono registrate nei magazzini di memoria implicita: essi sono già attivi dalla nascita nelle strutture limbiche del cervello, che non sono mediate dal linguaggio (poiché non è ancora sviluppato quando nasciamo).
Da grandi non abbiamo un ricordo cosciente di quanto registrato in queste memorie relazionali-emotive, ma fin da subito esse contribuiscono in modo profondo a strutturare la nostra personalità.
Il sistema di attaccamento rimane attivo tutta la vita, in ogni momento abbiamo bisogno di qualcuno su cui contare quando ci sentiamo vulnerabili, anche quando siamo adulti. Le nostre figure di attaccamento principali potranno divenire i nostri partner, ma anche rimanere i nostri genitori.
Ogni persona sviluppa un particolare modo attraverso cui chiedere aiuto quando ne ha bisogno.
La modalità tutta nostra di chiedere (o di non chiedere) aiuto quando ci sentiamo vulnerabili continua a modificarsi nel tempo (in base alle nuove figure di riferimento con cui entriamo in relazione), ma pone le sue radici profonde nelle esperienze emotive che abbiamo vissuto tra le braccia dei nostri genitori (o di chi si è preso cura di noi), quando non avevamo ancora le risorse per proteggerci da soli.
La caratteristica più importante dell'essere genitori: fornire una base sicura da cui un figlio possa partire per affacciarsi al mondo, e a cui possa tornare sapendo per certo che sarà il benvenuto.
John Bowlby
Fai solo previsioni utili
Qualche consiglio per non rincorrere troppo il futuro
• La mente ci porta continuamente a fare previsioni sulle azioni che dovremo compiere nel futuro, su quelle degli altri e sulla realtà in generale
• Passare del tempo a programmare il futuro può darci la piacevole sensazione di poter controllare almeno un po' il corso degli eventi
• Ma si tratta solo di una illusione
• Le previsioni che facciamo sono solo dei pensieri anticipatori, che delineano solo uno tra gli infiniti scenari che potranno accadere
• E a volte dedicare troppo tempo a quest'attività mentale genera addirittura ansia (più che una concreta utilità)
• Quando ci accorgiamo che questo accade, proviamo a fermarci
• Respiriamo, e proviamo a lasciar andare il desiderio di controllo
• Aggrappiamoci al presente, entrando con tutti i cinque sensi nell'azione che stiamo compiendo: è l'unica che sta esistendo ora, è l'unica davvero su cui possiamo influire
Tre modi di comunicare: in quale ti riconosci di più?
Proviamo a riflettere sul nostro modo di comunicare con gli altri
Sono stati identificati dalla psicologia 3 diversi modi di comunicare che le persone adottano quando entrano in relazione con gli altri: PASSIVO - AGGRESSIVO - ASSERTIVO.
Proviamo a vederli da vicino uno per uno, ponendoci la domanda: "io in quale mi ritrovo di più?".
Ricordiamoci di riflettere su noi stessi guidati da una gentile curiosità, non puntiamoci il dito addosso.
Nessuno di noi adotta unicamente sempre e solo uno di questi tre modi di comunicare: in base alla situazione, alla persona che abbiamo davanti, allo stato emotivo in cui ci troviamo, possiamo a volte usare un tipo di comunicazione, altre volte uno completamente diverso.
Comunicazione PASSIVA
- Subisco la presenza dell'altro
- Non esprimo apertamente la mia opinione per timore di quello che penserebbero gli altri
- Ho difficoltà a prendere decisioni
- Credo che l'altro sia migliore di me
- Temo il giudizio degli altri
- Evito i conflitti
- Mi capita di "scoppiare" e dire tutto quello che tenevo dentro, ma poi mi sento in colpa
- Tendo a non guardare negli occhi l'interlocutore, la mia voce è bassa e tremolante, percepisco il mio corpo impacciato
Comunicazione AGGRESSIVA
- Non ascolto i diritti dell'altro
- Mi ritengo nel giusto a tutti i costi
- Attribuisco i miei disagi/errori agli altri
- Ostento superiorità
- Assumo un atteggiamento controllante
- Non considero l'opinione altrui
- Colpevolizzo e giudico l'altro
- Tendo a guardare dritto negli occhi l'interlocutore in modo prevaricante, la mia voce è alta, mi avvicino molto con il corpo
Comunicazione ASSERTIVA
- Rispetto gli altri, i loro diritti e le loro opinioni
- Non permetto all'altro di essere aggressivo nei miei confronti
- Sono disponibile a modificare la mia opinione
- Non esigo che le persone si comportino come vorrei
- So di non avere diritto a giudicare gli altri
- Dico ciò che voglio, penso e sento in modo diretto e con intenzioni costruttive
- Comunico con tatto e senso dell'umorismo
- Guardo negli occhi l'interlocutore ma senza fissarlo, la mia voce è calda ed espressiva, il corpo è calmo
Risulta subito evidente come i primi due modi di comunicare aumentino le probabilità di sperimentare malessere durante le interazioni, a differenza della terza modalità presentata.
In quale comunicazione ci siamo più riconosciuti?
Essere consapevoli delle proprie modalità abituali di comunicare con gli altri è il primo passo per poter scegliere di orientarle verso modi più funzionali, capaci di generare maggior benessere a noi stessi e agli altri.
Spesso quando non riusciamo a comunicare bene con una persona (magari a noi cara affettivamente) ci focalizziamo solo sui suoi modi "sbagliati" di comunicare con noi. Discutiamo, magari litighiamo a voce alta, oppure ci teniamo tutto dentro, e mentre facciamo queste cose pensiamo a quanto l'altro dovrebbe cambiare i suoi modi di fare, perché se lo facesse di certo non ci sarebbero più tensioni tra noi.
Ma fondamentale è considerare la nostra comunicazione se vogliamo aumentare la probabilità che anche l'altro comunichi bene con noi. L'altro non possiamo cambiarlo, ma abbiamo invece ottime possibilità di apportare cambiamenti su noi stessi.
Il primo passo è riconoscere in quale tipo di comunicazione mi trovo:
- Quali sono i pensieri che scorrono nella mia testa?
(credo che l'altro sia migliore di me? io migliore dell'altro? considero entrambi esseri umani che si stanno scambiando opinioni degne di essere riconosciute?) - Quali emozioni sto provando?
(paura dell'altro? rabbia? desiderio di arrivare ad una comprensione reciproca?) - Il mio corpo che reazioni sta avendo?
(si sta facendo il più piccolo possibile? sta prevaricando sullo spazio dell'altro? è attivato, ma tutto sommato calmo?)
Per approfondire questo tema consiglio l'eBook gratuito di Tristano Ajmone: poche pagine chiare e comprensibili, riassunte in modo schematico.
Il modo di comunicare è fondamentale per i suoi risvolti relazionali: se interrompiamo ogni canale di comunicazione, cosa ci rimane? Come ci possiamo relazionare in modo soddisfacente?
Antonio Tosi
L'arte dell'attenzione coltivata con lo Yoga
Portare l'intenzione di ascoltarsi in profondità, qualunque cosa accada durante la pratica
Lo Yoga è una pratica che si realizza attraverso il corpo, ma in realtà rappresenta un profondo stimolo per lavorare sulla nostra mente.
Entrare in una posizione fisica dello Yoga (asana) può risultare più o meno facile, a seconda del grado di flessibilità e di allenamento, ma sicuramente più difficile è scegliere di orientare l'attenzione all'ascolto di quello che succede dentro di noi, mentre pratichiamo.
Ci vuole tempo, non è una faccenda immediata.
E soprattutto ci vuole l'intenzione.
Portiamo nella sala Yoga l'intenzione di ascoltarci in profondità, qualunque emozione emerga durante la pratica.
Portiamo con noi l'intenzione di coltivare gentilezza e rispetto verso il nostro corpo, senza pretendere che si allunghi come il compagno vicino o come sapevamo fare meglio alcuni anni fa.
Possiamo scegliere in ogni momento dove dirigere la nostra attenzione guidati da queste intenzioni. Ma per prima cosa è necessario notare quali pensieri automatici genera in continuazione la nostra mente, mentre entriamo ed usciamo dagli asana.
Quando una posizione ci riesce particolarmente bene, ad esempio, la mente incantata dal successo potrà iniziare a raccontarci quanto siamo bravi, e un'emozione di soddisfazione potrà accompagnare questo pensiero.
Possiamo allora fermarci un attimo, accorgerci di pensare e sentire questo, e iniziare a considerarlo qualcosa di transitorio, automatico, legato alla naturale aspettativa di fare una buona performance (che con grande probabilità ci attraversa tutti).
Respirando possiamo scegliere a questo punto di lasciarlo andare, e condurre l'attenzione all'ascolto delle altre sensazioni sottili che quella posizione sta generando nel nostro corpo.
E così, la mente può aprirsi alla curiosità.
E con la curiosità potrà scoprire qualcosa di nuovo nel nostro corpo: la presenza di qualche muscolo che non sapevamo quasi di avere, e che quella posizione ci fa percepire invece così bene; emozioni che ci accompagnavano in sordina da tutta la giornata, e che riemergono con intensità durante la pratica.
Lo stesso processo possiamo applicarlo quando il nostro corpo è invece particolarmente scomodo in un certo asana.
La mente sarà portata a dirci quanto non siamo capaci, i nostri occhi guarderanno i corpi elastici dei compagni generando una serie di confronti, mentre frustrazione e fastidio aumentano dentro di noi.
Anche dopo anni di pratica, è del tutto normale che possano scattare questi meccanismi.
Ma con il tempo si impara a sapersi fermare, per poterli osservare e riconoscere per ciò che sono: soltanto pensieri automatici. E forse scapperà anche un sorriso sul volto, mentre con autoironia penseremo: "ecco che la mia mente mi porta qui anche questa volta!".
E a quel punto con gentilezza riporteremo la nostra attenzione all'esperienza che ci sta donando il nostro corpo, provando verso di lui rispetto e amicizia.
Torneremo a casa dalla lezione di Yoga consapevoli di esserci presi cura di noi, rendendo tonico e flessibile il corpo, ma soprattutto allenando la mente ad osservarsi e ascoltarsi con coraggio.
Elena Brower dedica un intero libro a questo tema: vivere e praticare lo Yoga sviluppando l'arte dell'attenzione.
Fare dell'attenzione un'arte significa essere eleganti e sinceri con sé stessi
Elena Brower
Praticare Mindfulness vuol dire solo meditare?
Poter osservare la nostra mente in qualunque momento
Spesso si crede che praticare Mindfulness voglia dire soltanto sedersi su un cuscino, chiudere gli occhi e iniziare a meditare.
Pensiamo quindi che non faccia per noi, perché siamo sempre molto indaffarati, di corsa, e di certo non abbiamo tempo "da perdere" per sederci con gli occhi chiusi a pensare a chissà cosa.
Oppure siamo convinti che per rilassarci abbiamo bisogno di fare attività sportive, in movimento, in modo da scaricare le tensioni mentali attraverso lo sforzo fisico. Facciamo una corsetta, andiamo in palestra, partecipiamo al nuovo corso di Zumba, per riuscire a "non pensare a niente", per scrollarci di dosso i pesi che sentiamo nella nostra mente.
Sentiamo così di avere già gli strumenti utili per rilassarci. Perché dunque sprecare altre energie per imparare la "tecnica" della meditazione?
Avere queste convinzioni è del tutto normale, metterle in pratica anche, non c'è assolutamente nulla di sbagliato (se sta forse arrivando un po' di senso di colpa, prova a fare un respiro profondo e lascialo andare con un sorriso).
La domanda invece da porci con curiosità è: dov'è la nostra mente in ogni azione che compiamo?
Il corpo guida la macchina, beve il caffè con gli amici, esegue il lavoro per cui veniamo pagati, digerisce il pranzo e la cena: ma la mente è davvero con lui? E' davvero "dentro" di lui?
La brutta notizia è che no, spesso e volentieri la nostra mente viaggia per luoghi e tempi lontani che non hanno nulla a che vedere con l'azione che stiamo compiendo nel presente. Stiamo pensando a cosa dovremo preparare da mangiare mentre sudiamo al corso di Zumba, a come comportarci con quel collega di lavoro che non sopportiamo mentre ceniamo a casa con la nostra famiglia. Se ci facciamo caso, noteremo con quanta frequenza la mente è impegnata a pensare a tutt'altro rispetto a quello per cui il corpo è impegnato.
La bella notizia è che non c'è nulla che non va in noi, è semplicemente la nostra mente che compie il suo incessante lavoro: pianifica gli eventi futuri e rielabora quelli passati. Ogni essere umano ha dentro la testa un cervello che continua a fare queste cose, siamo programmati così.
La notizia ancora più bella è che proprio noi esseri umani abbiamo un'altra capacità che ci rende diversi dagli animali: la possibilità di "osservare" quella stessa mente in continuo movimento. Possiamo fare caso alla sua attività, e accorgerci se è davvero con il corpo, dentro al corpo, immersa nell'esperienza del presente, o nel passato o futuro.
Possiamo fare una "fotografia" dei pensieri che stiamo producendo, notando se sono collegati o meno a quello che sentiamo nel corpo, che facciamo con il corpo. Questa si chiama consapevolezza, significa praticare Mindfulness nelle azioni di vita quotidiana.
E allora potremo andare a fare una corsetta, in palestra, al lavoro, a casa con la nostra famiglia, in un modo un po' diverso: con curiosità noteremo quando la mente ci conduce lontani, per poi scegliere di riportarla alle sensazioni del corpo che si muove, che fatica, che corre, che ama.
La meditazione si inserisce come una sorta di "allenamento" a fare attenzione a quello che succede in noi, momento dopo momento. Con l'obiettivo di usare questa capacità nella nostra vita quotidiana, per essere meno in balia dell'attività automatica del cervello, più presenti a noi stessi.
Quindi no, praticare Mindfulness non significa solo chiudere gli occhi, sedersi e meditare.
Vuol dire rendere ogni momento della vita un'occasione per coltivare la consapevolezza.
L'alleanza terapeutica contribuisce allo sviluppo della metacognizione
Ricerca pubblicata su State of Mind dalla Dott.ssa Sara Citro
Sintesi dell'articolo "Interdipendenza tra fattori terapeutici: metacognizione e alleanza terapeutica" pubblicato su State of Mind dalla Dott.ssa Sara Citro, a seguito della tesi di laurea magistrale.
E' stato riconosciuto tra i primi 10 finalisti della II edizione del "Premio italiano State of Mind per la Ricerca in Psicologia e Psicoterapia".
Lo studio ha analizzato in che modo la relazione terapeutica puó aiutare la persona a riflettere sui propri stati mentali (come ad esempio pensieri, emozioni e desideri) durante un percorso di psicoterapia.
Questa abilità viene chiamata metacognizione: è utile per comprendere quali sono i pensieri e le emozioni alla base del proprio e altrui comportamento, riflettere su di essi e poterli regolare.
Per la sua importanza è considerata un aspetto rilevante su cui lavorare durante la psicoterapia.
Nella ricerca sono stati utilizzati 96 colloqui (audioregistrati e trascritti parola per parola) appartenenti a un campione di 24 persone.
Attraverso analisi statistiche si è osservato in quali momenti della seduta la persona mostrava una maggior capacità di metacognizione, riuscendo quindi a riflettere con piú profonditá sulle proprie esperienze. I risultati hanno mostrato che questo avveniva quando era presente una maggior alleanza terapeutica con lo psicologo.
L'abilità metacognitiva sembra quindi essere favorita dalla presenza di una buona relazione terapeutica con il clinico, che permette alla persona di esprimersi con libertà in un clima collaborativo.
Inoltre è emerso che nei momenti di piú alta metacognizione erano presenti piú interventi supportivi da parte dello psicologo, con i quali trasmetteva alla persona comprensione, validazione e supporto.
Metacognizione e alleanza terapeutica sembrano quindi influenzarsi reciprocamente: una buona relazione aiuta la persona ad elaborare con piú profondità la sua esperienza, e una buona metacognizione predispone il clinico nella creazione di una relazione terapeutica supportiva e collaborativa.
Questi risultati empirici si mostrano in linea con le recenti teorie, secondo cui metacognizione, alleanza terapeutica e interventi dello psicologo sono legati tra loro da un rapporto di influenza bidirezionale, condizionandosi costantemente e vicendevolmente (come mostra la figura).
Articoli curati dalla Dott.ssa Sara Citro, Psicologa, Psicoterapeuta ed insegnante Mindfulness.