Proteggersi quando si aiuta
Se stiamo aiutando qualcuno (un parente malato, un amico in difficoltà, un paziente in cura da noi, un figlio bisognoso, ...) dovremmo prima di tutto aiutare noi stessi.
Dentro una relazione d'aiuto, professionale o amicale che sia, è infatti indispensabile sentirsi saldi e radicati nel tendere la mano all'altro, altrimenti si sprofonda in due.
Se stiamo aiutando qualcuno (un parente malato, un amico in difficoltà, un paziente in cura da noi, un figlio bisognoso, ...) dovremmo prima di tutto aiutare noi stessi.
Dentro una relazione d'aiuto, professionale o amicale che sia, è infatti indispensabile sentirsi saldi e radicati nel tendere la mano all'altro, altrimenti si sprofonda in due.
Sull'aereo al decollo la hostess dice: "in caso di mancanza d'ossigeno, il genitore deve indossare prima la propria mascherina e poi aiutare il figlio a mettere la sua".
Ecco, ogni volta che accudiamo qualcuno, ricordiamoci di fare rifornimento noi di ossigeno...
...quindi usciamo all'aria aperta nel tempo libero, dedichiamoci alle cose ci piacciono, coltiviamo relazioni sociali ricche e appaganti. 🍃
Troviamo il tempo e lo spazio per ridere, per sentirci leggeri.
Impariamo a proteggerci, diventando così delle salde rocce a cui gli altri si possono aggrappare.
Cosa c'è dietro la rabbia?
Almeno una volta nella vita è capitato a tutti di sentire quel fuoco dentro che ci fa ribollire le guance, stringere i pugni, desiderare di spaccare qualcosa o insultare qualcuno. 🌋
È la rabbia, un'emozione che spesso fa paura provare, che non vorremmo mai incontrare in chi abbiamo di fronte, ma che se osservata in profondità ci può dire tanto.
Cosa c'è dietro questa emozione così destabilizzante?
Almeno una volta nella vita è capitato a tutti di sentire quel fuoco dentro che ci fa ribollire le guance, stringere i pugni, desiderare di spaccare qualcosa o insultare qualcuno. 🌋
È la rabbia, un'emozione che spesso fa paura provare, che non vorremmo mai incontrare in chi abbiamo di fronte, ma che se osservata in profondità ci può dire tanto.
Cosa c'è dietro questa emozione così destabilizzante?
Magari lo sconforto per non essere considerati abbastanza da un amico per noi importante.
Un collega che ci fa sentire esclusi.
La paura che nostro figlio non obbedendoci si faccia male.
La disperazione per aver perso l'amore della nostra vita.
Un'insicurezza che ci fa ripetere gli stessi sbagli ancora una volta.
Se guardiamo oltre la superficie con coraggio, la rabbia può diventare la porta di ingresso verso altre emozioni più profonde che ci stanno attraversando.
E anziché chiuderci, urlare e sbattere la porta, possiamo convogliare tutta la sua potente energia per sanare le nostre vere ferite. 💚
Ecco un video di come la rabbia viene declinata sul set cinematografico in modo diverso a seconda di quale sia l'emozione che la accompagna, interpretata dal magnifico Jack Nicholson.
http://www.ilpost.it/2017/04/22/jack-nicholson/
Lo spazio per poter essere
Concedere all'altro lo spazio per essere ciò che è e ciò che vuole essere. Senza circondarlo, neppure nella nostra mente, di giudizi, consigli, pressioni, speranze. 🍃
Lasciare che sia libero in questo spazio, avere fiducia che possa inventare da sè il proprio destino. Senza questo spazio la gentilezza muore asfissiata.Concedere all'altro lo spazio per essere ciò che è e ciò che vuole essere. Senza circondarlo, neppure nella nostra mente, di giudizi, consigli, pressioni, speranze. 🍃
Lasciare che sia libero in questo spazio, avere fiducia che possa inventare da sè il proprio destino. Senza questo spazio la gentilezza muore asfissiata.
"Concedere all'altro lo spazio per essere ciò che è e ciò che vuole essere. Senza circondarlo, neppure nella nostra mente, di giudizi, consigli, pressioni, speranze. 🍃
Lasciare che sia libero in questo spazio, avere fiducia che possa inventare da sè il proprio destino. Senza questo spazio la gentilezza muore asfissiata.
Se lo spazio c'è, può respirare e vivere.
Questo è il rispetto che vorremmo ricevere.
Questo è il rispetto che possiamo imparare a offrire."
Piero Ferrucci
A chi possiamo donare questo spazio? Al nostro partner, ai nostri figli, fratelli, amici, allievi, studenti?
Buona pratica ad ognuno di noi!
La nostra famiglia
Tutto parte da qui. Dal clima in cui siamo stati generati e messi al mondo.
Il calore con cui ci hanno presi in braccio, cullati, le canzoni sussurrate per farci addormentare. Le sgridate, le urla, i silenzi, gli abbracci.
Ogni famiglia possiede il suo "repertorio" di gesti, odori, routine, parole e modi di dire che vengono ripetuti costantemente.
Tutto parte da qui. Dal clima in cui siamo stati generati e messi al mondo.
Il calore con cui ci hanno presi in braccio, cullati, le canzoni sussurrate per farci addormentare. Le sgridate, le urla, i silenzi, gli abbracci.
Ogni famiglia possiede il suo "repertorio" di gesti, odori, routine, parole e modi di dire che vengono ripetuti costantemente.
E questo repertorio si iscrive dentro di noi, ancor prima che possiamo esserne consapevoli.
La trama colorata in cui siamo cresciuti rimane per sempre indelebile nelle nostre memorie emotive, da qualche parte nel cervello, e soprattutto nel nostro corpo. 🌈
E quando poi siamo noi a creare una nuova famiglia, quegli stessi colori riemergono prepotentemente, andando ad unirsi e intrecciarsi con quelli del nostro partner.
I due repertori si fondono, dando vita a una nuova trama colorata, sempre unica e diversa ogni volta.
La nostra famiglia. 💚
Si può sempre cambiare
Quante volte abbiamo sentito l'espressione: "è questione di carattere, se uno nasce tondo non può morire quadrato!"...?
E in un certo senso è vero, se uno nasce abete non può morire pino marittimo. Se uno nasce mela non può morire pera.
Ma in ogni fase della nostra vita, anche quando ci sentiamo ormai adulti fatti e finiti, è sempre possibile cambiare qualche aspetto di noi.
Quante volte abbiamo sentito l'espressione: "è questione di carattere, se uno nasce tondo non può morire quadrato!"...?
E in un certo senso è vero, se uno nasce abete non può morire pino marittimo. Se uno nasce mela non può morire pera.
Ma in ogni fase della nostra vita, anche quando ci sentiamo ormai adulti fatti e finiti, è sempre possibile cambiare qualche aspetto di noi.
È la consapevolezza a farci da guida: la comprensione di quali dinamiche ci hanno reso proprio abete e non pino, proprio pera e non mela. 🌲🍎
E, accettandoci con amore per quello che siamo, possiamo nello stesso tempo evolvere, un passo alla volta, verso ciò che per noi rappresenta "il meglio".
Per far nascere sulla nostra corteccia un piccolo germoglio, per farlo crescere giorno per giorno, per crescere insieme a lui.
Già solo intravedere il germoglio ci farà sentire alberi migliori.
Ad ognuno la propria visione della realtà
Può capitare di stupirci quando vediamo che una persona diversa da noi reagisce ad un evento di vita in modo completamente lontano da come avremmo fatto noi.
Non capiamo perché avrebbe dovuto comportarsi così, dato che ci sembra così ovvio e scontato che avrebbe dovuto viverla in un altro modo, simile al nostro.
Può capitare di stupirci quando vediamo che una persona diversa da noi reagisce ad un evento di vita in modo completamente lontano da come avremmo fatto noi.
Non capiamo perché avrebbe dovuto comportarsi così, dato che ci sembra così ovvio e scontato che avrebbe dovuto viverla in un altro modo, simile al nostro.
Ma la Psicologia ci aiuta a capire che se in una stanza ci sono 20 persone che vivono lo stesso identico evento, esisteranno anche 20 reazioni diverse di risposta a quello stesso evento!
Perché 20 sono le menti che "filtrano" in modo differente la realtà circostante. 👥
Come scrive lo psicoterapeuta Bruno Bara, mio formatore:
"Non esiste un valore assoluto per nessun accadimento di vita: è l'individuo che lo sta vivendo in prima persona ad attribuirgli un significato".
Compreso questo, diventa più facile aprirsi e ammorbidirsi di fronte ad opinioni diverse dalle nostre, a reazioni lontane dai nostri principi, a persone che ci sembra di non capire.
🔸La morbidezza prende il posto della durezza.
🔸La rigidità diviene allora flessibilità.
🔸E un senso di "apertura e accettazione" ci rende meno chiusi e respingenti.
Che rapporto abbiamo con le nostre emozioni?
Cosa contribuisce a farci avere reazioni emotive diverse dagli altri?
Ognuno di noi vive, percepisce e utilizza le proprie emozioni in modo molto differente dalle altre persone: possediamo modalità uniche e personali di esprimere e gestire la nostra sfera emotiva.
Ad esempio, c'è chi alla minima "perturbazione" ha uno scoppio di rabbia incontrollato verso di sé o verso gli altri, e c'è chi invece rimane mite e calmo anche davanti a perturbazioni esterne ben più forti. Esistono persone che vivono i momenti di ansia in modo catastrofico, percependoli come intollerabili ed eterni, mentre altri utilizzano il medesimo livello di attivazione ansiosa per dare il meglio di sé nell'azione che stanno compiendo.
Riflettendo un attimo, possiamo accorgerci di come non siano tanto gli stimoli esterni a rendere più o meno intensa l'emozione percepita, quanto la nostra reazione personale di fronte a quello stimolo.
E allora...cosa contribuisce a farci avere reazioni emotive diverse dagli altri?
Uno degli aspetti alla base di questa differenza interpersonale è l'insieme delle convinzioni che possediamo in merito alla legittimità delle emozioni: ovvero le credenze che abbiamo riguardo alla possibilità di esprimere o meno gli stati emotivi, soprattutto quando essi sono per noi faticosi e difficili.
Alcune persone credono infatti sia giusto e legittimo accettare e accogliere ogni emozione, bella o brutta che sia, mentre altri credono sia meglio sopprimerle, evitarle o sedarle in quanto simbolo di debolezza, fragilità o vulnerabilità.
Le credenze che abbiamo sulle emozioni e le strategie personali che mettiamo in atto per gestirle determinano quindi l'intensità e la durata dell'emozione che stiamo vivendo, al di là dell'intensità più o meno alta dello stimolo che sta elicitando quell'emozione.
Avere credenze catastrofiche sull'ansia, ad esempio, determinerà un aumento di questa emozione fino a percepirla come incontrollabile e immobilizzante.
Al contrario, credere che sia normale provare ansia, consentirà alla persona di non essere sopraffatta da ciò che sente ma anzi di servirsene per perseguire i suoi scopi, senza incorrere in attacchi di panico o altre reazioni disturbanti.
Nello schema sottostante si possono osservare le diverse strade che possiamo prendere nella gestione delle emozioni difficili, in relazione a quale convinzione abbiamo alla base.
1) Se crediamo sia "normale provare le emozioni" è probabile che accetteremo ciò che stiamo sentendo, per quanto doloroso possa essere per noi, per poi esprimerlo a noi stessi e magari anche alle persone a noi vicine, senza sensi di colpa o vergogna.
In questo modo staremo validando la nostra esperienza emotiva, dando ad essa uno spazio entro cui esistere, e apprenderemo nuove informazioni preziose sul nostro funzionamento.
2) Se invece uno sconvolgimento emotivo ci fa scattare nella mente delle "interpretazioni negative" (come pensare che quell'emozione sia priva di senso; eterna; incontrollabile; imbarazzante; incomunicabile; compromettente; travolgente), saremo portati ad evitare ciò che sentiamo, tentando di sopprimerlo, ignorarlo o eliminarlo.
Ma tali tentativi in realtà saranno inefficaci, in quanto il corpo troverà comunque il modo di "sfogare" quello stato emotivo attraverso strade più dannose, come la dissociazione, le abbuffate di cibo, gli abusi alcolici, le droghe, e stati di ottundimento.
Per comprendere meglio quali siano le nostre convinzioni sulle emozioni, possiamo chiederci come reagiamo di fronte a un'altra persona che sta provando una particolare emozione difficile, come ad esempio un amico che piange di tristezza davanti a noi.
Come ci fa sentire questo?
Corriamo subito a dargli un fazzoletto per impedire ad altre lacrime di uscire?
Tolleriamo lo stato d'animo dell'amico lasciandogli il tempo necessario per far fluire la tristezza, certi che anche questa passerà senza compromettere nessuno?
LE STRATEGIE CHE UTILIZZIAMO PER CAPIRE E REAGIRE ALLE EMOZIONI ALTRUI SONO LE STESSE CHE ABBIAMO NEI CONFRONTI DELLE NOSTRE STESSE EMOZIONI.
In conclusione, si può dire che esprimere e validare le emozioni permette una loro comprensione, aumenta la possibilità di tollerarle, e limita sentimenti di colpa o di vergogna che possono subentrare nel provarle.
Bibliografia:
Terapia degli schemi emozionali in "La regolazione delle emozioni in psicoterapia", Leahy R.L, Tirch D & Napolitano L.A.
L'aspetto delle cose varia a seconda delle emozioni; e così noi vediamo magia e bellezza in loro, ma, in realtà, magia e bellezza sono in noi.
Kahlil Gibran
Il corpo e il suo linguaggio: intervista ad Andrea Nervetti di Riza Psicosomatica
Rilflessioni a cura di Giulia Boffelli, studentessa di Psicologia e praticante Yoga, dal suo incontro con il mondo della psicosomatica
Ho il piacere di condividere le riflessioni di Giulia Boffelli (studentessa di Psicologia all'Università Cattolica di Milano e praticante Yoga presso MenteConsapevole), maturate in seguito all'intervista da lei effettuata al dott. Andrea Nervetti, caporedattore e psicoterapeuta presso Riza Psicosomatica (Milano).
Durante il corso "Esperienza pratica guidata" svolto all'Università Cattolica di Milano, io e alcune mie compagne di facoltà abbiamo avuto la possibilità di conoscere da vicino il mondo della psicosomatica, pressoché inesplorato in campo accademico, intervistando faccia a faccia il caporedattore della rivista Riza Psicosomatica: il dott. Andrea Nervetti.
Nonostante il fenomeno della somatizzazione sia presente nel genere umano fin dalle civiltà più antiche e rappresenti uno stile comunicativo primordiale (per esprimere un disagio che non trova via d'uscita se non attraverso il corpo), l'importanza di porre attenzione ai messaggi inviati dal corpo è stata a lungo trascurata nel corso del tempo.
L'unità Mente-Corpo, messa in luce in particolare dalle pratiche antiche esoteriche, è stata ripresa oggigiorno nel campo della psicoterapia, al fine di curare un sintomo che si presenta al confine tra lo psichico e l'organico.
Questa sottile linea di separazione appare ancora oggi molto sfumata, non solo agli occhi del paziente ma anche alla comunità scientifica. Il recente sviluppo ha però permesso di porre le basi per fornire nuovi strumenti di analisi del sintomo e ridefinire di conseguenza il concetto di salute.
Citando le parole del dott. Nervetti, per Riza si intende "andare alla radice della mente e del corpo...la caratteristica del rizoma (radice) è quella di sviluppare autonomamente nuove piante anche in condizioni sfavorevoli". Una denominazione breve ma che accoglie un profondo significato: secondo questo approccio, il rizoma o radice, rappresenta la parte più autentica di ciascuno di noi, ricca di incredibili sostanze di riserva che consentono di sorreggerne il busto e renderci stabili anche in situazioni di forte vento e tempesta, aprendoci verso la luce delle vette più alte.
Spiega inoltre che, durante le sue sedute psicoterapeutiche, utilizza molti esempi tratti dalla mitologia: "per parlare all'inconscio", afferma, "è necessario adottare un linguaggio metaforico" e a questo proposito mostra il valore curativo della letteratura (mondo considerato parallelo alla scienza ma che, al contrario, presenta punti di convergenza con gli strati più nascosti del nostro corpo).
Consiglia inoltre a tutti i giovani di intraprendere un percorso di Mindfulness, attualmente in voga in campo psicoterapeutico e di grande efficacia: lui stesso, tra i progetti futuri, vorrebbe seguire un master in tale percorso.
Il corpo lancia messaggi estremamente intensi: la capacità di ascoltarsi e ascoltare l'altro può essere una guida sicura, nel momento in cui tale ascolto è accompagnato da un'attenzione consapevole.
In questo senso la Mindfulness può rappresentare una lente di ingrandimento verso il nostro mondo interiore: il vero viaggio prende avvio da un'accettazione umile di quello che siamo, di com'è il nostro corpo, di quali sono le nostre emozioni e i nostri pensieri...questo ci conduce verso la scoperta di nuovi colori che solo se visti da vicino possono essere gustati fino alla loro essenza.
Grazie Giulia per la tua testimonianza.
Che tu possa continuare a conoscere ed esplorare il mondo della psicologia, guidata dalla luce che già brilla dentro di te.
Attaccamento genitore-figlio: una "base sicura" che permette di crescere
Come essere un "porto sicuro" per il proprio figlio
Ogni essere umano quando nasce possiede una tendenza innata presente fin da subito: ricercare la vicinanza protettiva di una figura di riferimento, ogni volta che percepisce uno stato di vulnerabilità (pericolo, dolore, fatica).
Questa spinta motivazionale innata viene chiamata dagli studiosi attaccamento. Ma noi umani non siamo gli unici ad averla. Avete presente la storia del piccolo anatroccolo che uscito dall'uovo inizia a seguire il primo oggetto in movimento che vede? Anche se si tratta di un guanto giallo o un di un altro animale non della sua specie? Ecco, l'anatroccolo nel far questo è spinto dal suo sistema di attaccamento, che lo porta a cercare subito una figura protettiva per salvaguardare la sua sopravvivenza (Lorenz; 1957).
John Bowlby partì da questa e da altre osservazioni sugli animali per definire la teoria dell'attaccamento umano (1969; 1973; 1980), oggi considerata uno dei principali riferimenti della psicologia.
Quando il bambino percepisce una situazione "di pericolo" si attiva in lui il sistema di attaccamento (e in parallelo si disattiva il sistema di esplorazione, che invece motiva ad esplorare il mondo).
Il bambino mette allora in atto una serie di comportamenti di attaccamento per ricercare la figura di riferimento, così da garantirsi la sopravvivenza che da solo ancora non può salvaguardare. Piange, vocalizza, muove le gambe e le braccia. Se ha già sviluppato la motilità si dirige a carponi, muove i primi passi, ricerca il contatto corporeo, oppure guarda da lontano il papà o la mamma in cerca di rassicurazione nel loro viso.
Il genitore a quel punto tenderà ad avvicinarsi al figlio per ridurre il suo stato di paura, generando il lui un senso di sicurezza. Così rassicurato potrà tornare ad esplorare il mondo, certo di avere un porto sicuro dove tornare in caso di bisogno.
L'insieme di queste esperienze condurranno il bambino ad "interiorizzare" nelle sue memorie emotive la figura del genitore come base sicura affidabile, a cui rivolgersi in caso di pericolo.
Nel corso delle prime esperienze di vita iniziamo infatti a costruirci delle rappresentazioni mentali di noi stessi e degli altri, che vengono registrate nei magazzini di memoria implicita: essi sono già attivi dalla nascita nelle strutture limbiche del cervello, che non sono mediate dal linguaggio (poiché non è ancora sviluppato quando nasciamo).
Da grandi non abbiamo un ricordo cosciente di quanto registrato in queste memorie relazionali-emotive, ma fin da subito esse contribuiscono in modo profondo a strutturare la nostra personalità.
Il sistema di attaccamento rimane attivo tutta la vita, in ogni momento abbiamo bisogno di qualcuno su cui contare quando ci sentiamo vulnerabili, anche quando siamo adulti. Le nostre figure di attaccamento principali potranno divenire i nostri partner, ma anche rimanere i nostri genitori.
Ogni persona sviluppa un particolare modo attraverso cui chiedere aiuto quando ne ha bisogno.
La modalità tutta nostra di chiedere (o di non chiedere) aiuto quando ci sentiamo vulnerabili continua a modificarsi nel tempo (in base alle nuove figure di riferimento con cui entriamo in relazione), ma pone le sue radici profonde nelle esperienze emotive che abbiamo vissuto tra le braccia dei nostri genitori (o di chi si è preso cura di noi), quando non avevamo ancora le risorse per proteggerci da soli.
La caratteristica più importante dell'essere genitori: fornire una base sicura da cui un figlio possa partire per affacciarsi al mondo, e a cui possa tornare sapendo per certo che sarà il benvenuto.
John Bowlby
Tre modi di comunicare: in quale ti riconosci di più?
Proviamo a riflettere sul nostro modo di comunicare con gli altri
Sono stati identificati dalla psicologia 3 diversi modi di comunicare che le persone adottano quando entrano in relazione con gli altri: PASSIVO - AGGRESSIVO - ASSERTIVO.
Proviamo a vederli da vicino uno per uno, ponendoci la domanda: "io in quale mi ritrovo di più?".
Ricordiamoci di riflettere su noi stessi guidati da una gentile curiosità, non puntiamoci il dito addosso.
Nessuno di noi adotta unicamente sempre e solo uno di questi tre modi di comunicare: in base alla situazione, alla persona che abbiamo davanti, allo stato emotivo in cui ci troviamo, possiamo a volte usare un tipo di comunicazione, altre volte uno completamente diverso.
Comunicazione PASSIVA
- Subisco la presenza dell'altro
- Non esprimo apertamente la mia opinione per timore di quello che penserebbero gli altri
- Ho difficoltà a prendere decisioni
- Credo che l'altro sia migliore di me
- Temo il giudizio degli altri
- Evito i conflitti
- Mi capita di "scoppiare" e dire tutto quello che tenevo dentro, ma poi mi sento in colpa
- Tendo a non guardare negli occhi l'interlocutore, la mia voce è bassa e tremolante, percepisco il mio corpo impacciato
Comunicazione AGGRESSIVA
- Non ascolto i diritti dell'altro
- Mi ritengo nel giusto a tutti i costi
- Attribuisco i miei disagi/errori agli altri
- Ostento superiorità
- Assumo un atteggiamento controllante
- Non considero l'opinione altrui
- Colpevolizzo e giudico l'altro
- Tendo a guardare dritto negli occhi l'interlocutore in modo prevaricante, la mia voce è alta, mi avvicino molto con il corpo
Comunicazione ASSERTIVA
- Rispetto gli altri, i loro diritti e le loro opinioni
- Non permetto all'altro di essere aggressivo nei miei confronti
- Sono disponibile a modificare la mia opinione
- Non esigo che le persone si comportino come vorrei
- So di non avere diritto a giudicare gli altri
- Dico ciò che voglio, penso e sento in modo diretto e con intenzioni costruttive
- Comunico con tatto e senso dell'umorismo
- Guardo negli occhi l'interlocutore ma senza fissarlo, la mia voce è calda ed espressiva, il corpo è calmo
Risulta subito evidente come i primi due modi di comunicare aumentino le probabilità di sperimentare malessere durante le interazioni, a differenza della terza modalità presentata.
In quale comunicazione ci siamo più riconosciuti?
Essere consapevoli delle proprie modalità abituali di comunicare con gli altri è il primo passo per poter scegliere di orientarle verso modi più funzionali, capaci di generare maggior benessere a noi stessi e agli altri.
Spesso quando non riusciamo a comunicare bene con una persona (magari a noi cara affettivamente) ci focalizziamo solo sui suoi modi "sbagliati" di comunicare con noi. Discutiamo, magari litighiamo a voce alta, oppure ci teniamo tutto dentro, e mentre facciamo queste cose pensiamo a quanto l'altro dovrebbe cambiare i suoi modi di fare, perché se lo facesse di certo non ci sarebbero più tensioni tra noi.
Ma fondamentale è considerare la nostra comunicazione se vogliamo aumentare la probabilità che anche l'altro comunichi bene con noi. L'altro non possiamo cambiarlo, ma abbiamo invece ottime possibilità di apportare cambiamenti su noi stessi.
Il primo passo è riconoscere in quale tipo di comunicazione mi trovo:
- Quali sono i pensieri che scorrono nella mia testa?
(credo che l'altro sia migliore di me? io migliore dell'altro? considero entrambi esseri umani che si stanno scambiando opinioni degne di essere riconosciute?) - Quali emozioni sto provando?
(paura dell'altro? rabbia? desiderio di arrivare ad una comprensione reciproca?) - Il mio corpo che reazioni sta avendo?
(si sta facendo il più piccolo possibile? sta prevaricando sullo spazio dell'altro? è attivato, ma tutto sommato calmo?)
Per approfondire questo tema consiglio l'eBook gratuito di Tristano Ajmone: poche pagine chiare e comprensibili, riassunte in modo schematico.
Il modo di comunicare è fondamentale per i suoi risvolti relazionali: se interrompiamo ogni canale di comunicazione, cosa ci rimane? Come ci possiamo relazionare in modo soddisfacente?
Antonio Tosi
Articoli curati dalla Dott.ssa Sara Citro, Psicologa, Psicoterapeuta ed insegnante Mindfulness.